Voglia di sapere e curiosità, la chiave giusta per una scuola efficace

Quando e se discutiamo in classe di un tema spinoso, come quello sulla scuola, si deve poi dimostrare di aver capito, ragionato con onestà intellettuale. Quindi dopo la fase riflessiva si passa a quella produttiva. A distanza di pochi giorni, gli studenti sono stati sottoposti a una delle mie terribilissime prove. Ci conosciamo da pochi mesi e in così poco tempo devo dire che alcuni ragazzi del Triennio hanno fatto davvero passi da gigante. Molti stanno cambiando fisionomia, maturano piano piano: prendere coscienza della propria posizione nella società odierna e futura (con la discussione) li aiuta molto. Per questo li metto al corrente sulle novità che li riguarda o riguarderà i giorni a venire (anche quando finiranno questo percorso temporaneo).

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Per fare questo è necessario spiegare che l’insegnante rappresenta il canale attraverso cui selezionare i contenuti, molteplici e infiniti in questo mondo attuale così complesso e difficilmente riducibile a stereotipi o frasi fatte. Vale la pena però di inserire un passaggio: possiamo concordare o dissentire con le parole degli insegnanti, che non sono infallibili. Se presenti tematiche che investono la loro sensibilità, il bersaglio è centro sicuro. E il prof, se instilla dubbi nelle giovani menti, ha fatto il suo dovere.

Non aggiungo altro.

Lascio qui alcuni stralci dei loro interessanti pensieri.

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Per alcuni, La scuola deve favorire la crescita culturale, emotiva e individuale dei giovani e la bellezza è una forma di arricchimento personale.

 

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Per altri la scuola rappresenta uno spiraglio, un luogo dove gli esseri umani possono sviluppare il senso critico.

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Infine, sembra davvero necessario per loro poter trovare il tempo per analizzare tutte le attività dell’uomo, stando attenti a tutti agli individui: ognuno con la propria storia, per provare a trovare insieme la “strada giusta”.

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La fretta, la competizione e la superficialità non sembrano essere più adeguate per i ragazzi e di questo sono felice, perché ascoltiamo la stessa sinfonia e suoniamo monocorde. Ancora una volta l’esortazione «Conosci te stesso» (in greco antico γνῶθι σαυτόν, gnōthi sautón, o anche γνῶθι σεαυτόν, gnōthi seautón) rappresenta un’àncora di salvezza e la consapevolezza dei propri limiti aiuta senz’altro a crescere.

A questo aggiungo un’esortazione: leggi ogni volta che puoi. Ti salverà!

 

(Ps. non voglio più sentir dire che all’Artistico non sanno scrivere!)

 

 

ps.

 

A loro scholè, per noi a-scholìa

Pochi giorni fa mi è capitato sott’occhio un illuminante ennesimo articolo (in realtà un approfondimento lessicale periodico curato da autori e filosofi italiani) sulla SCUOLA.

Di cosa volete che parli o scriva o commenti una come me? L’avete già capito sono monotonamente/monotematica. Così questo pomeriggio invernale mi è venuta voglia di raccontarvi ancora qualcosa su questo interessante episodio etimologico già esaurientemente argomentato da Matteo Nucci, grande firma che (come precisa L’Espresso) spiega perché in questo tempo di workaholic l’insegnamento finisce sempre all’ultimo banco.

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Questa l’immagine pubblicata sul sito dell’Espresso a corredo del pezzo etimologico di ambito scolastico.

Magari vi sono sfuggite queste righe, dunque se a nessuno dispiace vi tornerei sopra con poche-pochissime battute non tanto per parafrasare quanto per dire quanto i nostri alunni ci osservino increduli, talvolta, quando spieghiamo loro quale sia il ruolo dello studente nella società odierna. Penso di essere abbastanza titolata per inserirmi nel discorso. Lavoro a scuola a tempo DETERMINATO per osservare, studiare i fenomeni che accadono dentro le aule.

Cosa dite? Non so a voi, ma a me la parola scuola fa l’occhietto ogni santo giorno. Parliamo di scuola quotidianamente noi mamme coi figli alla primaria. Discutiamo regolarmente di scuola noi operatori impegnati. Ogni giorno. Come in battaglia, sul fronte occidentale.

Anche i miei alunni del Liceo ormai: “Prof anche oggi ci parla di scuola?

Perché, vi annoio?

”Ma no, quando mai… si figuri… a noi piace anche… cioè venirci nemmeno tanto, però…! Film sulla scuola, belli… ma anche… cioè… lasci perdere!”

Sì come a tavola. Vi sarà senz’altro capitato. I commensali, mentre mangiano, mentre divorano ravioli al sugo o cotolette impanate, non fanno altro che parlare di cibo, di ricette sfiziose, di future diete e digiuni prossimi. Ecco a scuola, mentre facciamo scuola, io parlo di scuola. Non posso farne a meno. Quindi quando ho avvistato questa breve dissertazione sul significato della parola a-noi-tanto-cara ho impostato subito un intervento nozionistico coi fiocchi fatto di dettato-lessico-comprensionedeltesto-commento-discussione. Durata due ore. Classe, Terza Liceo Artistico. 

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In effetti li ho colti di sorpresa. Ma prof non si fa il dettato così, a bruciapelo, su due piedi, senza preavviso, non appena rientrati dalle vacanze. Scrivere così tanto sul quaderno, non so, adesso ci verrà pure dolore al polso di primo mattino.

Il dettato inizia, perciò scrivete.

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Scuola. Sostantivo femminile derivato dal greco (σχολή) scholè, tempo libero, tempo dedicato allo svago, all’ozio, alle occupazioni piacevoli.

All’aggettivo LIBERO è partito il brusio di chi INCREDULO comprende ma dissente, alla parola OZIO associata con il lemma del giorno parte il chiacchiericcio di chi cosasentonolemieroecchie, al termine PIACEVOLE il cicaleccio del morto che parla, il suono del batti-ciglia di un risveglio intorpidito. T-E-M-P-O L-I-B-E-R-O???

Ma cosa è uno scherzo?

Ma quando è successo?

Beh, questo era il significato della parola nei tempi antichi quando i giovani si dedicavano allo studio per amore del sapere.

Proseguiamo sotto dettatura. …da Platone ad Aristotele, i greci antichi esaltarono con costanza e fermezza la scholè. Solo nel tempo libero dalle necessità materiali, ovvero dagli impegni decisivi a procacciarsi di che vivere, è possibile occuparsi della propria anima, costruire la propria personalità, ragionare, imparare, crescere (…).

Opposto al tempo libero della scholè stava dunque il lavoro (…) L’a-scholìa era il tempo necessario a produrre, il tempo del lavoro attraverso cui ci guadagniamo il pane.

Pensate un po’, ho detto loro. La vostra, dentro queste mura, dovrebbe essere un’attività di scholé, una mattinata piacevole fatta di ascolto, ragionamento, discussione. Ore SPENSIERATE per crescere.

La mia, nello stesso spazio, è attività di a-scholìa: di fatto ogni prof è pagato per stimolare il ragionamento, avviare una discussione. Passiamo tante ore insieme, noi e voi. Il vostro è tempo libero, perché non avete incombenze, scadenze, non percepite stipendio. Il mio tempo, invece, è carico di aspettative, svolgo l’attività di animatore culturale come in un simposio, ogni giorno un matinée pieno di personaggi letterari e figure retoriche. Tutto ciò io LO DEVO FARE PER LAVORO, OVVERO IN CAMBIO DELLE ORE CHE PIACEVOLMENTE PASSIAMO INSIEME, IO VENGO RETRIBUITA e qualcuno si aspetta di vedere i risultati.

Prosegue Nucci:
In un tempo dominato dallo spirito protestante del lavoro, del denaro e della produzione a ogni costo, un tempo in cui si è addirittura drogati di lavoro (workaholic) e incapaci di vivere il tempo libero, è facile capire perché la scuola venga sempre per ultima e semmai la si consideri come un semplice momento di preparazione al lavoro.

Ecco, ho provato un brivido. Come fa un operatore A-scholitico (scusate il neologismo) a essere davvero interessante, davvero motivato e credibile, davvero pronto ad animare di fatto la scholé per un uditorio stressato, tanto è alto il carico di tensione a fronte di verifiche e  interrogazioni che si susseguono di ora in ora, di prof in prof? Dov’è finito il piacere dell’ascolto? Ovvero dove si è celato se i nostri alunni non ci ascoltano più se impostiamo il lavoro in modo frontale e passivo ma soprattutto esclusivamente valutativo?

Ma dove stanno pure tutti quei contenuti formativi concreti che tanto promettiamo negli OPEN DAY (interessantissimi per carità) quando chiamiamo come sirene ammalianti i nostri futuri utenti cui promettiamo il sogno di un LAVORO CERTO, quando la generazione dei docenti oggi è composta in buona parte da precari come me che il lavoro CERTO non ce l’hanno a 46 anni suonati?

Il segreto vero sta proprio nel raccontare e raccontarci la verità usando il nostro senso critico, qualsiasi sia il tema nucleo delle nostre discussioni fra i banchi.

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Ecco perché spesso sono ipercritica nei confronti della realtà quotidiana vissuta nelle nostre aule. I ragazzi sono spesso vittime di un sistema che li vuole fermi e zitti. Via, compito in classe! Su, veloci, interrogazione. Ma se ci sediamo vicino a loro, in un circle time, come in un immaginario luogo dell’otium, forse la voglia di sapere può rifiorire.

Facciamo finta che ci siamo dati appuntamento qui, in quest’aula, ogni due tre giorni, INCONTRIAMOCI per parlare insieme di argomenti che sono certa non trattereste fuori dall’aula. Che so, nel parchetto qui accanto, coi vostri coetanei non parlereste mai, così, spontaneamente di poesia, che so di Dante, o di arte, per esempio di Parmigianino o dell’Umanesimo. Questo appuntamento ce lo diamo qui, in classe. Io propongo il periodo storico, o la corrente letteraria e voi dite la vostra. Perché (impegno a parte, che è sempre doveroso) se io faccio credere loro che studiare Ariosto serve per trovare un lavoro è chiaro che mi ridono in faccia. Questo lavoro non l’ho trovato nemmeno io che ho discusso tesi di dottorato sulle edizioni a stampa illustrate dell’Orlando Furioso undici anni fa!

Come in un gioco delle parti, dunque, l’adulto proporrà (come faccio spesso) uno dei suoi temi preferiti e i giovani lo discuteranno. Soprattutto, si entusiasmeranno se questo tema parla di giovani che finalmente capiranno perché vengono e devono venire a scuola. Otium, compreso.

 

 

 

 

 

 

GentilMente

Esiste solo un modo, a parer mio, per riuscire a comunicare, per connettersi con gli altri. E visto che in queste pagine (ovvero a scuola) ci occupiamo strettamente di altri – gli studenti – nel nostro lavoro è indispensabile porsi nella modalità gentile.

Prendo in prestito le parole di Cristina Milani che nel suo ultimo saggio “La forza nascosta della gentilezza” dice: (…) l’agire gentile è paragonato a un vecchio abito dismesso, passato di moda e quindi inutile se si vuol fare bella figura (…) il termine gentilezza è entrato in una profonda crisi d’identità.

L’ashtag gentilezza, in effetti, di questi tempi non ha molti followers.

In realtà la parola latina gentilis (colui che appartiene alla gens) si riferisce al concetto di gruppo, famiglia o specie. Anche il greco non si discosta molto da questo significato (cito sempre la Milani), legando il termine al concetto di “genia” (eugéneia, letteralmente “buona nascita”, di nobile stirpe) quindi un complesso di persone delle stesse origini.

Il termine sembra quindi rimandare al concetto di convivenza sociale. Col passare del tempo l’esperienza della vita comunitaria ci ha permesso di approssimare il termine a quei comportamenti che ci fanno stare bene insieme. La chiave di tutto a scuola è proprio lo stare bene insieme.

 

Stare bene in aula, coi compagni, con gli insegnanti che devono guidare il gruppo, impartire le nozioni, spiegare le parole difficili, interagire intelligentemente e con grande coscienza per trasmettere il sapere.

La gentilezza non è buona educazione e nemmeno un insieme di buone maniere, non è banalmente “cortesia”.

Tutti voi concorderete con me se dico che la scuola è una comunità. Io credo che all’interno di questa comunità ci si debba muovere per connessioni che creino benessere: unico modo per favorire l’ascolto è ascoltare, per determinare il miglioramento di chi ci guarda è essere empatici.

Guarda un po’, quando ho parlato di questo tema ai miei alunni di prima Liceo sono stati loro a creare la mappa descritta sulla lavagna.

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Sono stati sempre loro a inizio anno, quando abbiamo stilato il nostro patto di corresponsabilità, a chiedere che i prof siano GENTILI, EMPATICI e, naturalmente, PREPARATI.

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Fermo restando che “preparati” non significa solo esperti nella materia di insegnamento, ma anche in fatto di didattica, pedagogia e psicologia.

 

Per fare della gentilezza uno stile di vita di classe, come prima cosa, è necessario riabituarsi all’empatia e ai suoi meccanismi. La scuola ci impone ritmi frenetici: c’è il programma da portare avanti! La grande scusa. La grande ansia. Le relazioni umane tra docenti e discenti diventa superficiale. In spazi troppo ristretti, le interazioni non concedono spazio all’esercizio della gentilezza.  Invece, è utile provare a capire, mettersi nei panni degli altri (è più facile se davanti a noi chi ci ascolta è ancora immaturo). Siamo noi adulti, gli insegnanti, che dobbiamo cercare e creare la relazione giusta affinché il nostro uditorio ci apprezzi e ci ascolti davvero come nella famosa Warm Cognition.

Forse non tutti sanno che esistono i “neuroni specchio”, che si attivano per “imitazione”. Ed ecco sanati i conflitti a scuola.

Da poco ho sentito dire (e spero si sia trattato di una battuta) che i prof sono i NEMICI per antonomasia degli studenti. Non può esistere un alunno che apprezzi o si interessi a ciò che dice un insegnante. Non esiste se gli insegnanti continuano a comportarsi come dei tiranni talvolta aggressivi e intolleranti nei confronti degli alunni.

Eh, ma i ragazzi sono impazienti, maleducati, svogliati.

Certo talvolta mancano loro le istruzioni per stare bene in società. Quindi bisogna rinunciare alla possibilità che possano migliorare? La gentilezza (dice sempre la Milani) è come il software di un computer: se installato correttamente interagisce anche con gli altri programmi presenti sul pc. Io ritengo che una volta insegnato loro (con l’esempio) come vanno fatte le cose, come ci si comporta, il loro comportamento migliorerà e loro stessi ne trarranno grande beneficio fisico e mentale.

Infine, la gentilezza senza pazienza non si rivela. Gli insegnanti non devono mai perdere la CALMA. A volte i comportamenti sgarbati son dettati dalla fretta: in assenza del tempo necessario per conoscere davvero i nostri studenti e le loro argomentazioni ci spazientiamo. Quindi prestiamo più attenzione, più orecchio e scegliamo il sorriso che non è mai segnale di debolezza ma, anzi, di grande forza.

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Coraggio

Ci vuole coraggio per svolgere il mestiere di educatori oggi. Essere educatori, insegnanti, oggi, costa tanto. Tanta fatica.

Oggi. Una parola così attuale e così sfuggente. Oggi é adesso e domani non é più oggi, pur essendo presente prossimo.

Mi spiace dirlo, ma oggi sono arrabbiata. Non vorrei mai adirarmi pubblicamente. Eppure va così. Do pure, a malincuore, la zappa sui piedi alla categoria che attualmente rappresento temporaneamente. Lo faccio senza ritenermi esente da rimproveri.

Sono arrabbiata perché gli alunni che io riterrei validi, per voi validi non sono. Gli stessi ragazzi che io reputerei malleabili, per voi sono statici o, persino, immobili, incerti e gravemente irrecuperabili.

Le loro lacune incolmabili. I loro comportamenti inenarrabili.

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Sia chiaro. Non sono arrabbiata con nessuno in particolare (soprattutto non lo sono con gli alunni). Mai arrabbiarsi con gli alunni, sebbene non siano dei santi! È giusto esser severi, dire loro ciò che si pensa, soprattutto se qualcuno prende una pista sbagliata: quando ci si adira in classe, deve essere molto chiaro, si recita una parte. Fa parte del ruolo, del gioco delle parti. La parte di chi deve, necessariamente, riportare l’ordine, la disciplina, indicare la retta via e suggerire una giusta alternativa con piglio deciso e fermo. Ma mai prendersela sul serio. Chi si infuria, va in bestia, si esaspera in classe non otterrà mai risultati sperati. L’esasperazione non piace tanto ai ragazzi. Perché i giovani sono sensibili. Credo non piaccia a nessuno essere catalogati come i peggiori sulla piazza!

Infatti non ce l’ho coi piccoli, i medio, i medio-grandi. Ce l’ho con gli adulti. Ai piccoli, a mio avviso, è consentito sbagliare. Sbagliare è lecito, soprattutto quando le regole non sono chiare, le raccomandazioni sono troppe per cui si fa fatica a selezionare le più importanti, le essenziali. Se stai crescendo l’errare humanum est deve essere una priorità: sta a noi adulti trovare le soluzioni. Non vedo  perché mai svolgere questa delicata professione altrimenti. Chi non tollera gli errori deve cambiare lavoro. Perché questo non é il mestiere della gomma da cancellare, il mestiere della scolorina, ma il mestiere del Problem solving. Non é l’attività di chi “arrangiati”, di chi “non sai fare nulla” io non posso farci niente. Anziché focalizzare la nostra attenzione sulla condizione altrui, interroghiamoci sulla nostra soglia di tolleranza. Quante volte i docenti si interrogano sui propri fallimenti, analizzano le loro prestazioni, si domandano “Dove ho sbagliato?”.

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Sembra stia rigirando la frittata? È proprio così. La devo girare perché sul fronte é già stracotta. Bisogna avere il coraggio di dire a voce alta che anche noi adulti, preposti al ruolo di “direttori d’orchestra”, siamo capaci di stecche colossali.

La stecca è una nota stonata a scena aperta, una sbavatura, una macchia sul vestito di scena. La discordanza é evidentissima, eppure non la scorgiamo. A noi insegnanti pare di esser tanto “giusti”, tanto “perfetti”, tanto “coerenti” con le richieste ministeriali, tanto allineati coi propositi della morale scolastica. Sappiamo distinguere il bene dal male. Eppure, qualcosa non torna.  Qualcosa si annida fra i tasti neri e bianchi. I nostri alunni continuano a non comprendere, a non rispondere ai nostri input, a disattendere le nostre aspettative. Possibile che il problema sia insito negli studenti, tutto appannaggio del corpo studentesco?

 

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Come mai?

Non sarà forse che rispondiamo allo stereotipo di censore senza scrupoli, all’icona del castigamatti tout court, allo spauracchio senza cuore? Questononsidice, questononsifa? Ma poi, di fatto, le soluzioni non arrivano? Non é che forse forse diamo più importanza alla forma che alla sostanza, che uno shatush verde sia più significativo di un cervello sopraffino?

Sará, forse, che vogliamo scrivano-bene ma non gli abbiamo mai detto esattamente come si fa, o che parlino bene una lingua straniera senza mai aver dimostrato che colloquiare con un abitante di Timbuktu può essere persino esilarante?

E se per un giorno o due, ripensassimo alla nostra posizione di chihailcoltellodallapartedelmanico, di chi (giusto nelle aule scolastiche) ha il potere di fare il buonoecattivotempo, di quanti la cattedra è una barricata e ogni lezione si sta in trincea, e valorizzassimo le risorse umane disponibili? Non é che, forse, non siamo capaci di gestire queste potentissime risorse e contiamo sull’autonomia altrui, senza considerare che (forse) questi giovani ancora non sono affatto indipendenti? Certo per realizzare questo progetto ci vuole tanta pazienza. Gli ansiosi non dovrebbero scegliere questo mestiere. Non dovrebbero prendersi cura di piccoli uomini e donne in formazione.

Per ottenere i risultati sperati ci vogliono ci vuole tanto incoraggiamento. Perché nessuno é perfetto (chi sta in cattedra, in primis).

Non sempre siamo consapevoli della grazia poetica che ispira la formazione di certe parole, anche comuni. Il verbo insegnare è un esempio bellissimo di tale grazia.

Sappiamo che cosa significa: spiegare qualcosa, fornendo informazioni (come quando mi insegni un alfabeto) o mostrando con l’esempio (come quando mi insegni ad attaccare un bottone), al fine di fare apprendere una conoscenza o una capacità. Il respiro di quest’azione è molto vasto, spazia dalle nozioni più puntuali alle più generali condotte di vita, abbraccia l’esistenza umana dalla culla alla bara (umana e non solo), ma il suo cuore è invariabile – ed è questo cuore che l’etimo ci dipinge.

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Caro alunno il tuo compito é apprendere e il mio insegnare, ma soprattuto convincerti, comunicandoti che leggere e scrivere non solo é divertente ma, soprattutto, edificante e utile. Adeguato alla tua età, vantaggioso per il tuo futuro, favorevole per i tuoi prossimi rapporti interpersonali. Se io prima non comunico in modo efficace con te come posso insegnarti a leggere e scrivere a più livelli?

Se tu comprendi il mio messaggio, se tu capisci le mie raccomandazioni non solo andremo d’accordo ma tu, per primo, sarai in accordo con il mondo.

Lascio a voi proposte e propositi per migliorarci. Perché non può essere tutta una questione di valutazioni sul registro.

 

 

 

 

Sintonizziamoci!

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Torno su un tema che è sempre attuale e riguarda tutti gli ordini di insegnamento. Alla primaria, alla secondaria di primo e – confermo per viva esperienza personale dell’ultimo mese – di secondo grado, mantenere alto il livello di attenzione e un clima di classe sereno, silenzioso e collaborativo è davvero impegnativo. 

Per un docente è sempre più difficile coinvolgere e motivare gli alunni. Gli insegnanti oggi, diciamola tutta, sono in percentuale molto preparati nella propria materia ma hanno aspettative troppo alte, troppo spesso deluse. Tanti insegnanti vorrebbero sedersi in cattedra e iniziare la loro lezione quotidiana senza prima aver favorito la sintonizzazione con il proprio ascoltatore perché i ragazzi frequentano le superiori non sono più alle elementari e certe cose dovrebbero capirle! In realtà alle elementari gli stessi alunni erano un modello di disciplina! Cosa è successo nel frattempo?

Sentiamo (frequentemente) dire che in quella classe non si riesce a far lezione! se gli studenti non giacciono in stato di perenne gessificazione, congelati come Mammuth, fermi, immobili, tutti orecchie, penna pronta, quaderno aperto, mani sollevate solo per porre domande. Forse questi prof hanno dimenticato di essere stati un tempo giovani allievi adolescenti, altrettanto facili alla distrazione e difficili da ipnotizzare. Questi insegnanti mal tollerano il manipolo di studenti quattordicenni, in particolare modo, se sono in perenne movimento, chiacchierano durante la lezione, si alzano senza permesso, chiedono di andare in bagno o di poter sgranocchiare un cracker prima della ricreazione. Non basta mettere gli allievi in front of perché questi si applichino, si appassionino, ragionino senza intoppi, seguano pedissequamente, provino entusiasmo per questa o quella disciplina. Insomma perché apprendano, memorizzino, capiscano, apprezzando davvero le energie spese dentro le mura scolastiche, non basta una laurea o un dottorato di ricerca, possedere o meno l’abilitazione all’insegnamento.

Presentarsi privi di flauto magico può essere molto rischioso. 

La chiave numero uno è NO ai rimproveri, sì agli elogi.

Ma questi non sanno fare niente, non sono bravi in niente, mi disturbano, mi impediscono di lavorare!

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Questo non è mai vero! Le lodi suscitano sempre simpatia e rispetto. Un complimento provoca una sensazione di piacere così come le sensazioni negative legate al rimprovero si àncora alla persona che viene rimproverata generando una frustrazione senza ritorno.

Se il primo giorno di scuola mi trovo davanti a un gruppo caotico, dovrò essere molto bravo a gestire il mio “fastidio” utilizzando l’autocontrollo. Per essere leader, bisogna essere persone molto calme, capaci di gestire e domare il caos con serenità. Anzitutto bisogna scovare le peculiarità e i punti forti di ogni alunno, perciò bisogna subito entrare in sintonia con loro. Bisogna fare le giuste presentazioni, bisogna conoscere, scovare le passioni, trovare il punto di incontro fra l’adulto e l’adolescente. L’ascolto empatico, poi, è fondamentale. Mostrarsi sinceramente interessati agli altri non credo sia poi tanto difficile. Abbiamo molte cose in comune: a tutti piace il cinema, tutti hanno letto almeno un libro, o sono appassionati di street art o di videogiochi. Se noi li ascoltiamo, loro saranno più propensi a seguirci quando proponiamo un’attività o suggeriamo un’idea.

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L’aula è popolata da tanti esserini: chi disegna, chi pasticcia o distrugge il diario, chi guarda fuori dalla finestra, chi tiene gelosamente in mano il cellulare (anche se spento) sotto il banco. C’è chi ride, chi interviene senza sollevare la mano. Chi mastica chewing-gum, chi si siede come un indiano, chi in ginocchio si dondola sulla sedia. C’è chi “ho freddo”, può chiudere la finestra? Chi “ho caldo”, può aprire? Chi “non ho il quaderno”, chi “non ho il libro”, chi “non ho la penna”! Mille esigenze. Tutte, per altro, lecite. Perché le pause sono poche e le ore di lezione incalzano, ognuna con il proprio tutor.

La difficoltà principale consiste nel gestire una lezione in maniera lineare, tranquilla, efficace?

Se io sono un tipo Entro. Buongiorno. Mi siedo. Spiego. Interrogo. Arrivederci. Difficilmente i ragazzi mi daranno retta. Anzi, tenteranno in tutti i modi di intralciare il mio progetto quotidiano.

Invece se io Entro. Buongiorno, come state? Due battute sul look di questo o quello, passo in giro fra i banchi, scrivo un messaggio simpatico alla lavagna o disegno un personaggio buffo, dico via tutti i cellulari che fra un po’, se non state attenti, ve li installano perennemente sul braccio con qualche marchingegno che indebolirà il vostro cervello. Non lo sapete??? Bene oggi facciamo un patto. Ditemi come volete che io sia, io dirò come mi aspetto voi siate. Sapete che siete bravi? Certo l’italiano scritto deve migliorare, vedete qualcuno ha sbagliato qui, qualcuno qua (senza mai fare nomi). Cosa dite può esservi utile questo tipo di attività di correzione? Benissimo oggi abbiamo lavorato bene. Ammiro molto il vostro impegno! Mi dispiace, è durata troppo poco la lezione. Avrei voluto restare di più con voi. Arrivederci!

Solo dopo il consenso, arriverà l’ascolto e poi l’apprendimento.

Infine, a un certo punto della lezione, sto ferma e zitta, immobile, muta e osservo gli alunni. Si crea un silenzio di tomba surreale. Questo piace sempre a tutti!

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Proprio in quella classe dove solitamente c’è un casino infernale!

 

 

Creativi a scuola. Ovvero liberi di sbagliare

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Sappi che sei sorprendentemente pieno di risorse e capace di adattarti.

Inizio questo nuovo, nuovissimo, meraviglioso, stupefacente, interessante anno scolastico dedicando a me e ai miei studenti questa frase tratta dal nuovo volume di Keri Smith intitolato “The wander society”.

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La scrivo (qui, virtualmente) sulla lavagna e inizio a osservare, a raccogliere, a errare.

Mi trovo per l’ennesima volta in una stanza a forma di aula (che le aule son, in fin dei conti, tutte uguali, tranne che nell’ampiezza e nel contenuto umano): io di qua, loro di là. Io banco grande, loro banco piccolo, condiviso. Un gruppo sparuto si accomoda davanti, la massa rigorosamente in fondo, a distanza di sicurezza. Quando si inizia a vagare, è normale sentirsi confusi, disconnessi. Potrebbe anche darsi che il nostro critico interiore stia intervenendo, dicendoci che non siamo capaci.

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Io “prof alle superiori”. Sarò in grado di coinvolgere questi ragazzi, pronta a trasmettere, a comunicare, a segnare il loro percorso formativo? Non è un’esperienza del tutto nuova questa che mi capita a tiro, ho già insegnato in questo istituto. Però, ti ritrovi solo, davanti alla classe e senti quella leggera tensione, una vertigine, una leggerissima sensazione di PANICO. Non è diverso per loro.

Forse la prof sta guardando proprio me. Cosa vuole? 

Li vedi. Il corpo rigido. Si fanno forza, inclinandosi leggermente sul compagno di destra o sinistra, nascondendosi dietro quello davanti. In fin dei conti sono “nudi”, indifesi davanti a te, temono la tua chiamata, anche solo per pronunciare il proprio nome a voce alta.

La prof di lettere! La peggiore. La logorroica. Quella che leggiamo a tutti i costi. Quella che ci farà scrivere. Ma chi ne ha voglia! Adesso inizia a rompere questa!

Parlo, per l’appunto! Di me, di loro, dell’accordo che dobbiamo stringere, della promessa, della stretta di mano pre partenza. Guardo le reazioni, le loro, la mia alle loro. Sono pieni di risorse, sono piena di risorse. Adattiamoci. Andiamo per tentativi. Lavorando sul campo.

Prendo un bel respiro, tiro la rincorsa e parto. Visto che “il caso mi fornisce tutto ciò di cui ho bisogno (Ulysses, James Joyce) – una scuola diversa, alunni inaspettati, differenti, mai incontrati prima –  il mio itinerario, la mia ispezione nelle mente dei liceali, necessitanti di una cultura “superiore”, aspiranti maturi può avere inizio. Un viaggio nella mente degli “Acerbo sarai tu, 2.0” potrebbe essere una svolta!

L’attrezzatura per (…) creare il mondo che desidero e attrarre coloro che hanno affinità e farlo diventare universo (Anaïs Nin, The Diary) dovrei averla. (Cit. sempre Keri Smith, p. 82)

Borsa, fondamento del mondo portatile. Grande abbastanza per portare il nécessaire nesesèer

Divisa, abiti che ti fanno sentire te stesso (con spille)

Strumenti, taccuini, diari, utensili per scrivere, contenitori, lenti di ingrandimento, tablet, matite colorate

Cibo, cibi energetici (la prof mangia sempre in aula!)

Libri, la Smith consiglia di portare uno due libri o con i quali sei fissato.

Il primo giorno ho portato questi qui sotto:

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Sveglia! Non stai più alle scuole medie. Embè! Come no, in prima liceo, trovo ciò che ho lasciato di là. Sono ancora alunni di terza media. E così in seconda e in terza e in quinta, trovo cosa lascio nel contesto precedente. Mi pare di percorrere la stessa via, ma dovrò prestare attenzione a elementi diversi.

Ho cambiato percorso di proposito, per incorrere in nuove esperienze.

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Passeggio fra i banchi, tutti rigorosamente stipati sul fondo di una delle ampie aule del Liceo Artistico dove insegnerò, ancora una volta, materie del gruppo letterario. Insegnare a leggere e scrivere (sempre meglio, speriamo) ad alunni che hanno scelto l’arte e la creatività mi incuriosisce molto.

Non ho nessuna intenzione di portare solo parole: le useremo, sbagliando, per creare immagini. Anche cancelli, se occorre.

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E per iniziare, Limerick.

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Buon anno scolastico!

Regola-menti

Ora che finalmente le lezioni sono terminate, posso parlarvi di alcuni attimi trascorsi insieme negli ultimi giorni di scuola. Together, io e i miei alunni di prima.

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I miei giovani alunni a giugno (a verifiche concluse) sono abbastanza maturi per poter esprimere liberamente il loro dissenso. A inizio anno non conviene, ci conosciamo troppo poco. All’inizio del secondo quadrimestre non è il caso, bisogna studiare per rimediare i brutti voti del primo. A fine anno mi pare il dado sia tratto. Quindi propongo un esercizio di scrittura. Una lista. Ma non una lista qualsiasi, una lista di regole. Al contrario. Cioè dall’inizio dell’anno non abbiamo fatto altro che parlare di regole, di come ci si deve comportare a scuola e fuori di essa. Guai a trasgredirne una sola, pena la nota sul diario o, ancora peggio, sul registro elettronico! Quando ci vuole ci vuole!!

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Ma oggi no! Basta norme. Oggi ci liberiamo dei dettami consolidati e invalsi negli ambienti scolastici.

Oggi, caro studente, ti chiedo una lista di REGOLE CHE VORRESTI INFRANGERE. 

Ma regole di scuola, prof?”

Non necessariamente. Sbizzarritevi. Silenzio di tomba. Tutti intenti. È necessario cambiare punto di vista, ogni tanto (come dice Alessandro Bonaccorsi in “La via del disegno brutto, Terre di mezzo). Guardiamo le cose sempre dalla stessa distanza non, che è necessariamente la giusta distanza.

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Non sto a dirvi quanto possa essere liberatorio confessare i propri desideri. Lo sapete tutti, perché siete stati tutti alunni. Perché in fondo, a volte, l’infrazione è un vero e proprio sogno, incolmabile desiderio come quello di poter usare la scolorina sui fogli dei compiti in classe.

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Oppure pasticciare il diario, durante le spiegazioni. Pratica ancora diffusissima quanto distruggerlo.

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Tra le infrazioni più gettonate c’è quella di potersi alzare dal posto, poter fare chiasso con tutti i mezzi possibili, lasciare i libri a casa, mangiare a tutte le ore e, incuranti dei pericoli, regola delle regole, poter attraversare con il rosso.

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Non chiedetegli di stare in fila. Ma d’altra parte quale nostro connazionale ama stare dietro un altro?

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E i pigri, dove li lasciamo? Vuoi mettere fare tutto quello che si vuole senza mai chiedere il permesso???

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Ci sono pure gli animalisti, amanti della pet terapy e, chiaramente quelli che vogliono usare il telefono solo per scopi affettivi. La ricreazione è sempre troppo breve.

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Beh, poi prof se dobbiamo proprio lasciarci andare, io mi esprimo eh! Ma niente ramanzine…

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Ci sono trasgressioni inaudite come “spruzzare (non è dato sapere con quale liquido) le professoresse (fino all’ultimo giorno di scuola con due EFFE!!!!! Vieni qui che ti cancello!) che danno più fastidio. Guidare la macchina senza patente e, infine, spaccare tutto! Ma tutto tutto.

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E se non basta l’elenco spiego anche il perché…

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Come fai a non volergli bene??? L’anno prossimo (se deciderò di accettare una nuova supplenza) inizio con questa attività.

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Vediamo se saranno abbastanza disobbedienti!

Piazza pulita

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Se c’è un’attività in cui gli alunni sono eccellenza questa è mettere a soqquadro gli ambienti scolastici. Sono davvero bravi in questo. Metti 20-25 adolescenti in un’aula per almeno 5 ore. Agita bene e…

Se all’inizio della giornata la scuola è in ordine e pulita, alla fine delle 5 ore in classe sembra sia scoppiata la terza guerra mondiale. Come la mettiamo?

Non sono stato io e poi ci sono i bidelli…

Ecco, chi come me frequenta le aule scolastiche da molti anni conosce benissimo queste spudoratevergognoseimpertinentimenefreghisterisposte. Voi non ne avete idea! Quanta carta appallottolata. Quante bottigliette vuote. Quanti residui di temperalapis e gomma da cancellare, involucri di merendine e crackers fuoriescono fuori dal sottobanco, man mano che le ore corrono. Ma dove si trovava tutta questa spazzatura prima di diventare spazzatura? Se chiedi a loro, è stato come Ulisse di fronte a Polifemo=NESSUNO: quel disastro non è opera loro, ma quando mai! E poi ci sono i collaboratori scolastici. Dove sta il problema? Questo è il loro lavoro. Quindi, ogni santo anno, mi ritrovo a spiegare meglio quale sia il ruolo dei collaboratori scolastici (santi subito!), persone davvero pazienti, che hanno tantissime mansioni, tra cui rispondere alle centinaia di telefonate quotidiane, accompagnare e sorvegliare tutti gli alunni dell’istituto recatisi in bagno, aprire e chiudere il cancello e accogliere visitatori esterni, genitori in soccorso dei figli, alunni che entrano in ritardo ed escono in anticipo. E le fotocopie??? Secondo voi chi le fa? Dulcis in fundo anche quello di rassettare le aule a fine giornata è uno dei centomila compiti che ricadono su quei due-tre collaboratori di cui dispone la scuola italiana.

Nelle nostre aule da moltissimo tempo sono presenti i mastelli della differenziata perché anche la scuola deve rendere conto alla nettezza urbana. Quindi tutti dobbiamo collaborare alla riuscita del progetto porta a porta che a Cagliari, dove vivo e insegno, è stato avviato da meno di un anno. Ma se nessuno è stato a buttare in terra le cartacce chi deve raccogliere e riordinare?

Proviamo a consegnare ai nostri alunni questa scheda pensata da Keri Smith nel suo eccezionale Piccolo manuale dei grandi sbagli:

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Fai un po’ di disordine pubblico e lascia tutto lì perché altri lo trovino. Sembra scritto giustappunto per loro. Se la scuola proponesse questo genere di compiti avrebbero tutti dieci.

Per non parlare delle macchie sui banchi, le più improbabili che non vanno via nemmeno con l’acido muriatico.

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Beh, sapete che vi dico?

Se non rimettete tutto a posto entro uno-due-tre-quattro-cinque-sei-sette-otto-nove-dieci secondi di qui non si muove nessuno!

E non è uno scherzo. Di qui non si passa!

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Allora li vedi… tutti di corsa, chi sopra, chi sotto. Chi chiede la scopa, chi il raccoglitore, chi lo straccetto.

E batti il chiodo oggi e battilo domani, la tenera minaccia di tenerli dentro quello spazio così sporco ancora qualche manciata di minuti fa scattare l’allarme. E in meno di dieci secondi l’aula non è perfetta ma quantomeno il volume degli scarti è diminuito notevolmente. E così la prof è contenta, i collaboratori pure e noi impariamo che la civiltà passa anche attraverso questi piccoli segnali di collaborazione tra pari. I bambini sono sensibili e ogni pratica deve essere ripetuta quotidianamente per avere i primi risultati. Alla fine dell’anno, se tutti si impegnano, le aule sono più vivibili e la differenziata dà i suoi frutti. I ragazzi capiscono che l’aula è di tutti, un ambiente comune da rispettare per un convivenza dignitosa. Imparano anche a rispettare il lavoro degli altri, perché un conto è riordinare altro è essere travolti dai rifiuti.

Perché nessuno ha sporcato però se quando torni non trovi tutto perfetto ti lamenti.

E questo lo dedico ai miei concittadini, perché l’impegno civile passa per le aule scolastiche e se i nostri figli sono lo specchio dei nostri comportamenti, facciamoci qualche domanda sul perché i cagliaritani facciano fatica ad accettare il conferimento dei rifiuti porta a porta.

Basta un incipit

Per amare la scrittura è necessario scrivere, scrivere, scrivere. Divertendosi. Se a scuola mi diverto a comporre, scriverò sempre con dedizione. Con passione. Con slancio.

Per scrivere bene a volte basta un incipit.

Se saprei scrivere bene (come titola uno dei miei manuali per docenti preferito) potrei essere molto migliore, più elegante. Più presentabile agli occhi altrui. Più più più giusto, ecco, ma non solo per avere bei voti.

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Ma prof quel titolo è sbagliato!

Dici davvero? Sei sicuro? Io dico che è giusto, perché non l’hai notato? Saprei è scritto in rosso! È una scelta degli autori. Quindi è giusto!

Ah, capito prof. Bello!

Così, prima di assegnare le attività odierne, tratte da questo mitico volume, ho mostrato un albo illustrato.

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A che pensi?

Se tu fai questa domanda, i ragazzi ti rispondono a NIENTE!

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Consegno dunque l’esercizio numero 5. Imitazione da incipit. Dato un incipit, continuare un racconto scegliendo tra i seguenti. Alla fine dai un titolo al lavoro.

Queste le teste dei miei alunni che vanno incoraggiati.

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Questi gli alunni che riflettono.

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Questi alcuni risultati. Non avete idea di quanto si siano divertiti. Abbiamo riso moltissimo leggendo i nostri racconti horror.

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Le nostre riflessioni sono interessanti e i desideri inappagati sono realtà.

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Tra qualche giorno ci salutiamo e io sono soddisfatta.

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